Il cinema Australiano

I produttori e attori cinematografici australiani continuano a spostarsi regolarmente fra l’Australia e l’estero per lavorare. Il film Master and Commander del regista di Sydney Peter Weir – uno spettacolare adattamento dei romanzi di avventure marinare di Patrick O’Brian – è stato uno dei grandi successi internazionali del 2004. Attori come Nicole Kidman, Geoffrey Rush. Guy Pearce, Cate Blanchett, Naomi Watts e Toni Collette sono solo alcuni dei nomi più famosi di un folto e distinto gruppo di australiani che si sono costruiti una carriera nella cinematografia australiana e internazionale. Lo stesso dicasi dei neozelandesi con base in Australia Jane Campion e Russell Crowe, vincitore dell’Oscar 2001 come miglior attore protagonista.  E’ certamente un buon risultato per un’industria cinematografica che era praticamente moribonda prima che un’iniezione di denaro pubblico la riportasse in vita nei primi anni ’70.

Tuttavia, il successo di cassetta che ci si potrebbe logicamente aspettare, continua a sfuggire ai film prodotti localmente, e l’anno passato ha visto intensificarsi il dibattito sul modo migliore per finanziarli e commercializzarli. Ad animare ulteriormente questo dibattito ha contribuito l’uscita nel 2003 di una serie di commedie a basso costo che non hanno incontrato il favore né dei critici né del pubblico. Successivamente, nel tentativo di rendere più varia la produzione, il principale ente di finanziamento dell’industria cinematografica, la Film Finance Corporation, ha istituito un nuovo programma che si propone di promuovere progetti di qualità che potrebbero altrimenti naufragare per mancanza di una prevendita commerciale. Più calorosa è stata l’accoglienza ricevuta da Somersault, il primo lungometraggio della sceneggiatrice e regista di talento Cate Shortland, quando è stato lanciato al Festival del cinema di Cannes nel 2004. Ma, sebbene sia poi risultato vincitore in 13 categorie dei premi dell’Australian Film Institute, in termini di incassi è stato anch’esso deludente.

Le difficoltà di finanziamento e di commercializzazione non sono certo una novità per l’industria cinematografica australiana: esse sono andate di pari passo con i suoi successi fin dai primi anni della rinascita. I film sulla storia coloniale del paese furono i primi ad imporsi. Il pubblico e la critica internazionale accolsero favorevolmente The Chant of Jimmie Blacksmith (1978), La mia brillante carriera (1979), Breaker Morant (1980) e Gallipoli (1981), tutti film che avevano affrontato temi universali e li avevano ambientati in uno scenario di nuova frontiera – un paesaggio illuminato da un chiarore dorato dove la bellezza delle immagini già costituiva un elemento di pregio.

Ci è voluto un po’ più di tempo, invece, perché le storie sull’Australia moderna catturassero l’immaginazione del pubblico. Vi sono stati alcuni successi isolati come il giallo Mad Max (1979) girato in economia da Gorge Miller, che affascinò gli appassionati dei film d’azione con l’energia viscerale del suo stile, oltre a lanciare una nuova star internazionale, Mel Gibson. Paul Hogan ambientò le avventure dell’eroe dell’ ‘outback’ nell’ultimo scorcio del XX secolo nella commedia popolare Crocodile Dundee (1986), mentre le raffinate pellicole contemporanee del regista di Melbourne, Paul Cox, si affermavano nel circuito mondiale dei festival cinematografici.

Ma è stato soltanto con l’avvento della cosiddetta commedia ‘quirky’ (bizzarra) all’inizio degli anni ’90 che si è avuta la vera svolta. Ballroom, gara di ballo (1993), Priscilla, regina del deserto (1994) e Le nozze di Muriel (1995) hanno dimostrato il nuovo vigore – e umorismo – del cinema australiano. Più recentemente hanno avuto successo alcuni film fuori dai soliti schemi come Lantana (2001) di Ray Lawrence, raffinato ritratto di gruppo che è andato molto bene a livello internazionale, e Japanese Story (2003), con Toni Collette nei panni di una geologa australiana che ha una storia con un uomo d’affari giapponese durante un viaggio nell’ ‘outback’. C’è stata anche un’intensa produzione di lungometraggi dedicati a temi e personaggi indigeni. Fra i più riusciti si può citare: La Generazione Rubata (2002) di Phillip Noyce, un adattamento del libro di Doris Pilkington Garimara sulle esperienze di sua madre come appartenente alla ‘generazione rubata’ – bambini aborigeni strappati alla famiglia per essere assimilati nella società ‘bianca’ durante il XX secolo.

Un particolare motivo di ottimismo è stato il fiorire di nuovi talenti fra i cineasti sotto i quarant’anni – molti dei quali usciti dalla Scuola australiana di cinema, radio e televisione – che  hanno prodotto lungometraggi d’intrattenimento e opere prime a costi notevolmente bassi. Anche tecnicamente l’industria cinematografica australiana ha fatto notevoli progressi con la realizzazione di studi cinematografici in grado di ospitare produzioni delle dimensioni e complessità di Matrix (1999), Mission Impossibile II (2000), Moulin Rouge (2001) e L’Attacco dei Cloni (2002), il più recente episodio della serie Guerre Stellari di George Lucas, girato in parte negli Studi Fox di Sydney. In un’industria dominata da Hollywood l’esistenza di qualsiasi cinematografia nazionale è precaria. Ma la tenacia e la  creatività del cinema australiano dimostrano che è ancora capace di affrontare il futuro con fiducia.

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